QUANDO IL MORALE CALA

Imparare a leggere la tristezza in chiave organizzativa

di Dario Bussolin

In molte organizzazioni esistono parole che si usano poco. Tristezza è una di queste. Non perché non esista, ma perché è un’emozione silenziosa, a bassa intensità, che mal si adatta al ritmo veloce e ottimista richiesto dalla maggior parte dei contesti lavorativi.

Eppure, accade: ci si sente tristi al lavoro. A volte per motivi espliciti: una decisione presa dall’alto, la chiusura di un progetto importante, un feedback mai arrivato. Altre volte è più sottile: un senso di distanza, la sensazione di non essere più al posto giusto. 

UN SEGNALE DA INTERPRETARE (E ACCOGLIERE)

La tristezza è un’emozione a bassa attivazione (low-arousal), spesso meno riconoscibile rispetto ad ansia o rabbia. Questo perché non scatena reazioni forti, ma modifica il tono, l’energia, il modo di stare nelle relazioni. Per questo, nelle culture aziendali orientate all’efficienza, tende a essere ignorata, o classificata come qualcosa da risolvere rapidamente.

In realtà, non sempre la tristezza richiede una soluzione immediata. A volte, la tristezza è una risposta coerente a una perdita, a una frustrazione, o a una disconnessione. 

E può essere utile proprio perché segnala che qualcosa è stato importante per noi. Spesso si associa la tristezza a un calo di produttività, o a un segnale di disimpegno. Ma è solo una parte del quadro. Se riconosciuta e condivisa, può diventare uno spazio per fare il punto, rielaborare, ridare significato a ciò che si fa. In una cultura del fare, la tristezza può offrire l’occasione per sostare. Non per fermarsi in modo improduttivo, ma per osservare: cosa sto lasciando andare? Cosa non funziona più per me? Dove ho smesso di sentirmi coinvolto?

Trattenere la tristezza in modo cronico, invece, può generare forme sottili di disconnessione: non un rifiuto esplicito del lavoro, ma una partecipazione più passiva, più distaccata, meno creativa. Il lavoro viene svolto, ma senza investimento personale. È lì che il rischio si alza, perché le emozioni non riconosciute non spariscono: si sedimentano. Avere un linguaggio, personale e collettivo, che consenta di nominare anche la tristezza è una competenza organizzativa, non un ostacolo.

VULNERABILITÀ E APPRENDIMENTO

Uno studio pubblicato sul “Journal of Applied Psychology” (Lee, Edmondson, Thomke, 2020) ha analizzato il legame tra vulnerabilità emotiva e team learning behavior, ovvero la capacità dei gruppi di apprendere dai propri processi.

Lo studio apre al tema della sicurezza psicologica, ovvero la percezione che sia possibile esporsi emotivamente senza subire conseguenze negative sul piano relazionale o reputazionale. È emerso infatti che i team in cui le persone si sentono libere di esprimere le proprie emozioni, anche le più “deboli” (come tristezza o incertezza) sono più propensi a condividere errori, chiedere aiuto, rivedere le decisioni. In sintesi: ad apprendere meglio e più velocemente, muovendosi con maggiore agilità e resilienza nei momenti di difficoltà. Questo perché la vulnerabilità non blocca l’azione, ma la rende più informata. Quando possiamo dire “questa cosa mi ha lasciato un senso di tristezza”, contribuiamo a costruire un contesto in cui anche gli altri possono portare ciò che sentono. Il risultato è una cultura più sicura, in cui l’apprendimento non avviene solo per correzione, ma anche per ascolto.

IN CONCLUSIONE

Nel complesso, accogliere la tristezza al lavoro non significa cedere all’inattività o perdere autorevolezza. Significa, piuttosto, riconoscere che le emozioni non sono una parentesi del lavoro, ma una parte integrante della nostra presenza professionale. In particolare, la tristezza, spesso trascurata perché poco visibile, può offrire segnali preziosi: su ciò che è venuto meno, su ciò che ci manca, su ciò che una volta ci coinvolgeva e oggi non ci muove più.  

Darle spazio non vuol dire “romanticizzare” il disagio, ma renderlo pensabile. E trasformarlo in un’occasione di contatto con se stessi, con gli altri, con il senso del proprio agire.

Le organizzazioni che riconoscono anche le emozioni meno comode non sono meno performanti. Spesso sono più resilienti, più innovative, più sostenibili nel lungo periodo. Perché coltivano ambienti in cui le persone non devono sempre essere al massimo per sentirsi legittimate. E proprio per questo possono restare fedeli, creative e presenti.

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